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RECENSIONI   /   musica   /   Jontom – I need you both

(mercoledì, 22 febbraio 2012)

Per la recensione del nuovo disco di Jontom, il primo basato sull’ukulele, ho intenzione di violare la una delle prime regole che ci sono state insegnate, fin da bambini. Lo giudicherò dalla copertina. Il design di I need you both è semplice, minimale, sembra davvero un foglio ripiegato in tre più che un vero e proprio cofanetto. In primo piano uno scatto di Francesca D’Urbano che ritrae lo stesso musicista durante una delle sue esecuzioni dal vivo. I colori sono caldi, vibranti, leggermente bruciati sui bordi. Si può notare una certa rispondenza tra la scelta del packaging e il disco vero e proprio.

Posso dire con cognizione di causa di avere visto tanti ukulelisti a questo punto della mia vita. Tanti professionisti, tanti wannabe, tanti che basano il proprio successo sulla simpatia e sul fascino dello strumento. Jontom non appartiene a nessuna di queste categorie. Non solo è un musicista “vero”, ma è uno degli ukulelisti dall’approccio più tecnico sullo strumento, frutto di uno studio e di una ricerca formale costanti e quotidiani. Il suo stile è elegante, improntato a una chiarezza sonora riscontrabile solo nei grandi solisti. Ma veniamo alle canzoni del disco. Il titolo “I need you both” sembra essere un riferimento ai due strumenti di Jontom, il pianoforte, lo strumento con cui si è accostato alla musica, e l’ukulele, strumento di elezione. Il ruolo del piano è sporadico, è una sorta di accompagnamento che serve a dare profondità e a infittire la tessitura sonora nei momenti più drammatici. Le canzoni sono dieci suddivise equamente: cinque canzoni originali e cinque cover. Dentro a questa prima partizione c’è un’ulteriore suddivisione, trasversale rispetto alla prima: cinque brani strumentali e cinque brani con accompagnamento vocale.

Il disco si apre con la bene augurale Fat Moon, non solo una semplice dichiarazione di intenti ma quasi un manifesto artistico, in cui si possono già sentire le diverse tecniche che accompagnano l’ascolto. Proseguiamo con un arrangiamento di Across the universe e l’atmosfera diventa già magica e le capacità evocative dell’ukulele emergono con straordinaria forza. Tutti i dischi, anche i più forti e omogenei hanno una canzone che può essere definita come un diamante, un punto che brilla in maniera indiscutibile. Nel caso di I need you both, il diamante è la terza canzone, Sleep, in cui si realizza un perfetto equilibrio tra voce, ukulele e piano. L’assolo è estremamente raffinato. Con Brown eyed girl, uno dei classici delle esecuzioni amatoriali su ukulele, Jontom dimostra che ci può (ci deve!) essere cura anche negli accompagnamenti apparentemente più semplici. Subito dopo un omaggio a John Lennon, con Imagine, in un arrangiamento messo a punto nel corso del tempo. Nella strumentale Julia vengono mostrate le potenzialità dell’ukulele anche come… percussione, mentre in Fast ride torniamo sulla carreggiata di una canzone di viaggio. Il ritmo fa immaginare immediatamente lo scorrere veloce dei pali della luce al passaggio della propria vettura in autostrada. Quello che stupisce di questo disco è l’esposizione di tematiche così intime con un tono così brillante. Merito dell’ukulele, e in particolare del lussuoso Kanilea K3 con cui è stato inciso il disco. Tears in heaven ha un posto speciale nella musica di Jontom, si potrebbe dire che sia uno dei suoi pezzi feticcio, studiato, limato e riarrangiato fino all’inverosimile. Il risultato è evidente. Every breath you take, arrangiamento strumentale dai Police è il brano in cui è più presente il pianoforte, in un andamento allo stesso tempo raccolto e orchestrale. La canzone conclusiva è l’unica in italiano, e suggerisce che il viaggio iniziato con Fat Moon non si conclude, perché la strada da percorrere è ancora lunga. Resta da dire ancora qualcosa sulla voce di Jontom, che ha accompagnato l’ascoltatore con parsimonia e, si potrebbe dire, in punta di piedi. Il timbro è pulito, melodioso, e solo di tanto in tanto diventa improvvisamente più aspro, quasi ruvido. Per certi versi potrebbe ricordare in Rod Stewart più meditativo e pensante nell’approccio vocale. Un disco per viaggiare con la mente.

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