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(domenica, 11 giugno 2023)

Lo spettatore scomodo

 

O come l’arte performativa può salvarci dall’autocompiacimento

 

Note a margine della performance di Armon Art presso il Museo Hendrik Christian Andersen (9 giugno 2023)

Siamo abituati a stare comodi. È una cosa buona? È desiderabile? È un fattore meritevole di protezione? La pandemia ha messo in evidenza qualcosa che era già in atto: il ritiro dagli spazi pubblici e dalle esperienze condivise. Perché andare al cinema quando puoi avere un Home Theatre? Perché andare sul luogo di lavoro quando puoi fare Smart working (usando oltretutto questa locuzione in modo improprio)? Perché andare a scuola o all’università, in una biblioteca o frequentare un laboratorio quando si può fare tutto da quel luogo ibrido pubblico/privato che chiamiamo casa? Per concludere perché andare a teatro o addirittura in un museo?

Un museo, di per sé, è un luogo morto. Senza il pubblico che lo visita è solo un deposito di materia inerte. Tuttavia sono i corpi vivi dei visitatori che lo rendono ancora una volta vibrante. In un museo l’unica cosa in grado di fare la differenza è il corpo del pubblico. Quando vai in un museo, sei libero: scegli tu cosa fare del tempo e dello spazio, anche se all’interno di poche restrizioni: c’è uno spazio che non si può oltrepassare (non toccare!) e hai il limite temporale delle ore di apertura. Al di là di questi due elementi, la libertà è (in genere) assoluta. Puoi passare delle ore di fronte a un’opera particolare (se hai questa esigenza) e puoi anche farti tutto il museo di corsa, come se volessi battere qualche record. Puoi fare uno di questi due estremi e tutte le sfumature tra i due e nessuno ti giudicherà per questo.

Nel cuore di Roma, a pochi passi da Piazza del Popolo, al 20 di Via Pasquale Stanislao Mancini, puoi trovare Villa Hélène, ora un museo, ma in precedenza la casa studio dello scultore norvegese (naturalizzato cittadino statunitense Hendrik Christian Andersen (Bergen, 1872 – Roma, 1940). Al centro del luogo, l’idea utopistica di creare un centro di comunicazione dedicato alla divulgazione dei prodotti di mente e spirito, che siano destinati a essere liberi come “l’aria, la luce e il mare”. Il luogo perfetto per una performance. Il luogo perfetto per stare scomodi.

E ora veniamo alla performance di Armon Art, un lavoro indubbiamente audace che unisce recitazione, danza e canto. E qui veniamo al paradosso: Armon sa come far stare lo spettatore scomodo in modo salutare. Tanto per cominciare lo spettatore è in piedi, ed è “costretto” a seguire la performance in un itinerario attraverso il museo, in cui il gigantismo delle sculture – come se non bastasse – contribuisce a farti sentire ancora più piccolo. Corpi umani esaltati nella loro nudità e nella loro biomeccanica per lo più in gesso, ma anche in bronzo e in marmo. Qui il corpo umano scolpito, nella sua inerzia, celebra l’immortalità della materia. La performance, specie nella parte di danza, che esalta le effimere qualità del corpo vivente, celebra l’immortalità dello spirito. L’inizio dello spettacolo, che riproduco in una foto qui sotto, è una delle cose più potenti che abbia visto negli ultimi anni.

A questo punto è lecito domandarsi: dove sta questa scomodità salutare di cui parlo all’inizio. Arrivo al punto, ma sono necessarie due premesse. Prima premessa: secondo me non c’è (ormai) una differenza significativa tra teatro e performance, e uso questi due termini in maniera intercambiabile. Seconda premessa: quando lo spettatore è seduto a teatro, in una posizione stazionaria, con una prospettiva fissa, e come se fosse in una bolla. La poltrona è simile a un guscio protettivo, in cui si suppone che nessuno ti tocchi o ti parli durante lo spettacolo. Non è previsto che tu ti muova e questa inerzia del corpo porta spesso a un’estrema mobilità della mente, non sempre desiderabile. Puoi vagare nei fatti tuoi o persino addormentarti.

Una performance in un museo sfida questa prospettiva: non ci sono sedute. Può sembrare una cosa da poco e si potrebbe dire che guardare uno spettacolo da seduti e uno spettacolo in piedi sia può o meno la stessa cosa (scomodità a parte). Sbagliato. Quando sei in piedi, quando puoi camminare o devi camminare per seguire l’azione scenica, accade qualcosa. Uno spettatore in piedi è uno spettatore attivo, e uno spettatore attivo è pronto e ricettivo. Deve camminare, deve trovare il punto più adatto per vedere, rispettando al contempo il patto implicito di rispetto degli altri spettatori, deve decidere se spostare il peso su una gamba o su un’altra. Questa necessità di compiere una scelta ha un impatto sulla psiche: uno spettatore che sceglie non è uno spettatore passivo. Da qui la necessità di essere scomodi: lo spettatore non è più una mente che vaga, ma un corpo che si muove in uno spazio artistico.

In teatro si è parlato fino allo sfinimento di quarta parete, quella barriera invisibile che rende il palco simile a un acquario: il pubblico vede cosa accade sulla scena, ma gli attori fanno finta di non vedere il pubblico. Durante la performance in un museo non c’è una parete e questo è estremamente perturbante e – soprattutto – scomodo. Lo spettatore diventa immancabilmente goffo: “posso stare qui?” “Dove inizia lo spazio scenico e dove finisce?” “non rischio di avvicinarmi troppo alle opere d’arte?”. Questo tipo di incompetenza spaziale diventa il punto chiave che rende speciale la relazione tra artisti e pubblico. A un certo punto accade una vera e propria trasformazione: la scomodità e il senso di inadeguatezza del pubblico si muta in sicurezza e lo spazio alieno di un museo diventa un luogo familiare in cui tutto è possibile.

C’è un momento, durante la performance, in cui il pubblico è invitato a visitare gli spazi per conto proprio, prima di muoversi al piano superiore per la parte finale dello spettacolo. Questo è un momento di fondamentale importanza, perché allora lo spettatore può abitare lo spazio, renderlo proprio ed entrare in relazione personale con le statue di Andersen. Allora potrebbe comprendere che le statue non imitano il corpo umano, così come le danzatrici non imitano il corpo scolpito: entrambe hanno una vita autonoma che raggiunge il proprio pieno potenziale con il terzo elemento: il pubblico. Parola proferita, danza, musica e canto sono i tramiti che rendono realizzabile questa scomoda relazione tra spettatore e spazio museale. Potrebbe sembrare troppo e tutto insieme, ma è un qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno, anche se ancora non lo sappiamo.

A Roma (in effetti un po’ ovunque in Italia) ci sono molte gemme nascoste come Villa Hélène che aspettano solo di essere scoperte. Sono profondamente convinto che proprio performance di questo tipo, così immersive e così a 360 gradi possono portare alla luce questi tesori e permettere loro di brillare.

Armon Art ensemble è un gruppo di artisti di talento il cui approccio multidimensionale è in grado di dare nuova vita al nostro patrimonio artistico.

Coreografie: Elisa Baldisseri, Federica Pedicini, Chiara Mercuri. Pianoforte, Composizione musicale: Federico Baldisseri. Recitazione: Doriana Mercuri. Canto, Composizione musicale: Maria Vittoria Feccia. Producer, Composizione musicale: Mario Santanoceto

 

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