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RECENSIONI   /   teatro   /   L’amore in guerra – Melania Fiore

(lunedì, 20 febbraio 2012)

In un’altra versione di questo spettacolo, diretto da Melania Fiore, il doppio testo sulla Stein e sulla Melzner diventa un doppio monologo in cui le due figure maschili scompaiono, mantenendo una presenza solo nella mente di queste due protagoniste. Fra l’altro questo impianto richiama l’idea iniziale di Mario Scaccia, ispiratore di questo testo a lui dedicato.

A prima vista, il passaggio da due personaggi a una sola protagonista può essere visto come un passo indietro, come il ritorno a una forma più semplice. Non ci si potrebbe sbagliare di più. Qui ci troviamo davanti a un vero e proprio passo avanti. Il dialogo immaginato diventa più intimo, più viscerale, scava in profondità evitando psicologismi e portando alla luce emozioni che vanno al di là del testo. La mancanza di un’interruzione, di una voce “altra”, diventa qui una ricchezza per il testo e un’impresa notevole per l’attrice. A questo punto è davvero difficile pensare a un’interpete diversa da Melania Fiore per questo lavoro. Per una ragione molto precisa, e cioè per il legame profondo che qui si compie fra scrittrice e interprete. Il suo lavoro di attrice è qui il completamento del lavoro di autrice, il lavoro di una scrittura che diventa compiuta non sulla carta, ma sulla scena, inciso nel vivo della sua corporeità e della sua voce.

Amore in guerra è un dittico femminile ai tempi del nazismo, due ritratti di donna molto diversi e dai destini opposti. Unico punto in comune: il desiderio di battersi contro la violenza della storia, il senso di ribellione e lo slancio verso la libertà. Due figure a loro modo emblematiche.

La prima è Gertrud Stein, pianista ebrea omosessuale perseguitata dal regime hitleriano. La seconda è Matilde Melzner, affetta da una leggera forma di schizofrenia che la confina nell’Istituto di cura di Eichberg. Nella crudele distorsione delle parole, tipica delle dittature, la parola “cura” assumeva allora l’accezione di “eutanasia”.

I due testi di Melania Fiore sono due complesse partiture, vibranti di umanità e di passione per la vita. Lo sfondo storico viene posto in evidenza senza mai scadere in quella didattica sentenziosa che spesso affligge il cosiddetto teatro della memoria. Si può invece dire che in Amore in guerra non c’è un briciolo di retorica, mentre è invece chiaro l’intento di giungere all’essenza dei problemi. Come per il caso di Matilde Melzner: deve essere salvata perché è una grande pianista o la sua vita deve essere risparmiata semplicemente perché è una persona? E ancora: l’economia può davvero governare la razionalità numerica fino ad andare contro ogni idea di umanità? Tali questioni non sono però presentate in maniera astratta, ma vissute sulla carne di due donne che l’autrice e interprete ha deciso di portare sulla scena. Ogni sfumatura è resa nell’autenticità del tono di voce, nella precisione e nella pulizia del gesto, in quella magia unica e irripetibile dell’attrice che sa ancora sorprendersi di se stessa. Essere spettatori di questo lavoro teatrale vuol dire intraprendere un viaggio di alto significato storico e morale, con un’importante avvertenza. La questione della violenza sui più deboli, sugli emarginati e su chi non può difendersi non è un reperto archeologico da mettere in un museo: è una questione tragicamente attuale e all’ordine del giorno. Anche per questo lo spettacolo è dedicato a tutte le donne che subiscono ancora soprusi di ogni genere.

Molto bene anche Stefano Patti, che ha l’ingrato compito di dare vita in scena a due personaggi difficili e ambigui, cioè profondamente umani. La loro caratteristica comune è l’intima lacerazione dell’io compiuta dai sistemi autoritaria, fino alla perdita di senso dell’individuo.

Il pregio maggiore di Amore in guerra è di non essere rassicurante. Come dovrebbe essere il teatro ancora in grado di “turbare” le coscienze e di accendere il pensiero, una forma di teatro sempre più rara e sempre più a rischio di estinzione.

Mauro Corso

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