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Analisi: come è raccontata la storia della pesca?

 
L’iconica pesca di Esselunga

 

Ormai è stato detto più o meno tutto. In questo breve articolo vorrei concentrarmi su alcuni aspetti della costruzione della storia della pesca, anche tramite l’uso di qualche immagine. È bene ricordare che in un corto così breve (2 minuti) ogni aspetto, anche il più piccolo deve essere controllato in maniera meticolosa e nulla può essere lasciato al caso o a interpretazioni non desiderate.

Dov’è Emma?

Il corto si apre con un gancio potentissimo, quasi un colpo basso alla paura più profonda di ogni genitore: perdere di vista il proprio bimbo in un luogo pubblico. La mamma agisce in un modo che potremmo definire da manuale: mantiene la calma, chiama il nome della figlia senza alzare la voce, non corre e chiede alle persone che si trovano nelle vicinanze se abbiano visto Emma. Questo racconta molto del personaggio della madre: è controllata, ha padronanza delle emozioni e agisce in modo razionale.

Perché una pesca?

Perché proprio una pesca? In una pubblicità di un supermercato ci si potrebbe aspettare la presentazione di un prodotto recante il marchio della catena. Una pesca si può trovare in qualunque luogo di grande distribuzione. È un procedimento rischioso, ma i creativi hanno preferito puntare al legame tra luogo ed emozione, anziché tra prodotto ed emozione. Sulla natura della pesca mi sento di fare alcune ipotesi: è un frutto abbastanza grande perché sia visibile e perché sia afferrato in maniera stabile dalla mano di un bambino; ha una struttura regolare e rotonda che evoca l’idea di circolarità; ha una sua dolcezza; non ha addentellati culturali forti che facciano pensare ad altro. Altri frutti hanno la stessa forma, ma non sarebbero stati adatti. La mela ha troppi riferimenti culturali (il giardino dell’Eden, Biancaneve), l’arancia è troppo aspra e acida, il cachi avrebbe portato ad associazioni semantiche indesiderate. In seguito scopriremo che al papà piacciono le pesche. Probabilmente questa è la ragione narrativa per cui Emma sceglie proprio una pesca e non altro.

Non devi farlo mai più, ok?

La “fuga per prendere la pesca” si risolve senza drammi e con un semplice avvertimento a non fare più una cosa del genere. La pesca viene comunque concessa alla bambina (anche perché altrimenti la storia sarebbe finita qui), ed è un segno di serenità dei rapporti tra madre e figlia. Una cosa niente affatto scontata visto che la famiglia sta attraversando una fase molto difficile e probabilmente è ancora in una fase di adattamento. Non ho elementi testuali per stabilire che la separazione sia recente: la mia è solo una sensazione.

Lo sguardo della bambina

Nel corto il protagonista è lo sguardo. Lo sguardo ha una funzione trasformativa, nel senso che cambia la natura di quello che osserva in modo profondo. In questo caso un oggetto indifferente come un frutto diventa il veicolo di una comunicazione al momento assente. In questo punto i più precisi hanno detto che la pesca avrebbe dovuto essere nel sacchetto. Ahimè, la scena non avrebbe avuto lo stesso appunto e quindi è una licenza del tutto perdonabile. Una nota sugli altri prodotti (visibili) messi sul nastro dalla madre: insalata, succo di frutta, uova, latte, ceci. Fa pensare a un’alimentazione vegetariana o più semplicemente si è scelto di mettere in campo alimenti (anche questi tutti senza marchio) che non distraessero.

Incidente chiuso

Nel frattempo l’incidente della fuga di Emma per recuperare la pesca è definitivamente chiuso. La mamma ha rimproverato la bambina in maniera ferma, efficace, ma anche affettuosa ed è finita. Ora le riporta le parole della maestra su un disegno che ha fatto. Il disegno non sembra indicare elementi della separazione tra i genitori. Anzi, in questo momento non abbiamo indizi per pensare che i genitori di Emma siano separati. La bimba però non sembra molto interessata a quello che dice sua madre e guarda fuori. Una scena in particolare cattura la sua attenzione.

Io vedo una famiglia

Per quanto possa sembrare bizzarro, questa potrebbe essere una citazione quasi letterale da Harry ti presento Sally (e per ora non mi sembra che questo sia stato rilevato). Vi consiglio di guardare questo breve passaggio.


In questo caso è il montaggio a ricostruire il monologo. Di fatto lo spettatore commenta nella propria mente “io vedo una famiglia”. Nella sua semplicità è un procedimento molto forte, molto efficace ed emotivamente molto carico. Da qui potremmo intuire qualcosa sulla verità di Emma come figlia di genitori separati.

 

Si ride e si scherza

 

Tuttavia Emma è una bambina serena, quando sta con i genitori ride, scherza, si distrae e non vive la situazione in maniera estremamente drammatica. Questo è un particolare della narrazione molto significativo. Da un punto di vista comunicativo, offrire una narrazione cupa sarebbe controproducente. In effetti il corto si muove sul filo del rasoio delle emozioni negative ed è un gioco molto rischioso. Le emozioni infatti si ricollegano al vissuto dello spettatore in maniera individuale e potenzialmente imprevedibile. Anche per questo lo spot è stato così divisivo: ha toccato corde diverse in persone diverse, a volte anche in modo tagliente.

 

Il citofono

 

La scena in cui arriva il padre è molto interessante perché delinea in maniera molto precisa il rapporto tra i genitori. L’uomo citofona, ma non risponde nessuno al citofono. Invece c’è un gioco di sguardi estremamente basilare che si può così riassumere:

 

Ti vedo

 

“Ti vedo, sei arrivato”.

 

Anche io

 

“Anche io ti vedo, sai che sono qui”. Non uno scambio di sguardi particolarmente gioioso o entusiasta. Fare rispondere al citofono non avrebbe avuto la stessa efficacia. Resta il fatto che i due genitori non sembrano comunicare in modo verbale. Dopo questo riconoscimento la madre comunica “Emma, c’è papà”. Una frase emotivamente carica. Per restare nella logica fredda degli sguardi precedenti avrebbe potuto dire “Emma c’è tuo padre”, invece usa una formula familiare che salvaguarda la relazione tra padre e figlia. Una scelta rispettosa che definisce la separazione come – tutto sommato – abbastanza serena.

 

L’abbraccio

 

L’abbraccio tra papà e figlia conferma che la relazione tra bimbo e singolo genitore non è alterata ed è sempre gioiosa. Si può notare dalle case sullo sfondo che si tratta di una famiglia benestante, se fosse Roma potrebbe essere un luogo di Prati. Quindi a questo punto lo spot esclude alcune cose della separazione: non è avvenuta in una situazione di svantaggio o esclusione sociale; non è avvenuta in modalità estremamente conflittuali; la bambina non è stata usata da un genitore per metterla contro l’altro; è stato conservato un elevato livello di serenità. Papà e figlia si recano verso la macchina.

 

Lo sguardo della madre

 

La madre guarda la scena dall’alto. È uno sguardo diverso da quello di prima perché lei sa di non essere vista. Quindi non deve nascondere un’emozione che invece è offerta agli spettatori. Un’emozione di tristezza, un’emozione vera.

 

Me la manda la mamma?

 

E arriviamo alla scena clou del corto, ormai diventata meme in mille modi diversi. Il padre sa benissimo che non è possibile che la madre abbia mandato quel frutto, ma tiene il gioco alla figlia. È un passaggio molto importante che definisce l’azione della figlia. Se il padre avesse creduto al racconto della bambina, lei sarebbe passata per piccola manipolatrice (lo so, è un’espressione molto forte, ma concedetemela per amore di discussione); invece visto che il gesto è stato scoperto, il gesto di Emma è solo molto tenero. Quale è allora il vero scopo di Emma? Aprire una comunicazione, cosa che avviene.

 

Il padre guarda verso la finestra della madre, finestra che era già stato un canale di comunicazione che quindi viene usato in maniera coerente. Da notare che la soggettiva è omologata al punto di vista della bambina (vediamo il cruscotto dell’auto). In un certo senso è la sua piccola vittoria. Quindi riassumendo: lo sguardo di Emma ha trasformato una pesca in veicolo di comunicazione e la pesca ha cambiato lo sguardo dei genitori. Un oggetto neutro è diventato un qualcosa di emotivamente carico e “caldo”, da cui il claim finale “Non c’è una spesa che non sia importante”.

 

La finestra

 

Noi sappiamo che fino a pochi secondi prima la madre era alla finestra e non abbiamo visto il suo allontanamento. Potrebbe essere là oppure, il riflesso impedisce di vedere. Da notare l’uso delle piante sul davanzale, anche questo non è casuale e si può interpretare come un segno di prosperità e di speranza.

La piccola stratega si gode una piccola vittoria

 

Cosa fa la nostra piccola stratega in macchina? Infila perline, una ad una, in una collanina o un braccialetto. Segno di una strategia di lungo periodo? Potrebbe essere l’episodio uno di un lungo percorso che porterà i genitori al riavvicinamento? La pesca è il primo anello di una collana? Se così fosse sarebbe una strategia di marketing molto coraggiosa, ma non priva di insidie. Bisogna anche tenere a mente che questo spot ha fatto – come si suol dire – il botto, diventando fenomeno di costume. Se ci fosse un “sequel” sarà molto complesso soddisfare le aspettative.

Molto è stato detto su questo spot, ma in questa sede ho voluto considerare il suo aspetto principale: il racconto di una storia. Benché una storia racconti un aspetto possibile della realtà, non è il paradigma di una determinata situazione, meno che mai di una questione individuale, variegata e complessa come quella di una separazione. Con questo non è mia intenzione negare la liceità di altre letture.

Lo spettatore scomodo

Lo spettatore scomodo

 

O come l’arte performativa può salvarci dall’autocompiacimento

 

Note a margine della performance di Armon Art presso il Museo Hendrik Christian Andersen (9 giugno 2023)

Siamo abituati a stare comodi. È una cosa buona? È desiderabile? È un fattore meritevole di protezione? La pandemia ha messo in evidenza qualcosa che era già in atto: il ritiro dagli spazi pubblici e dalle esperienze condivise. Perché andare al cinema quando puoi avere un Home Theatre? Perché andare sul luogo di lavoro quando puoi fare Smart working (usando oltretutto questa locuzione in modo improprio)? Perché andare a scuola o all’università, in una biblioteca o frequentare un laboratorio quando si può fare tutto da quel luogo ibrido pubblico/privato che chiamiamo casa? Per concludere perché andare a teatro o addirittura in un museo?

Un museo, di per sé, è un luogo morto. Senza il pubblico che lo visita è solo un deposito di materia inerte. Tuttavia sono i corpi vivi dei visitatori che lo rendono ancora una volta vibrante. In un museo l’unica cosa in grado di fare la differenza è il corpo del pubblico. Quando vai in un museo, sei libero: scegli tu cosa fare del tempo e dello spazio, anche se all’interno di poche restrizioni: c’è uno spazio che non si può oltrepassare (non toccare!) e hai il limite temporale delle ore di apertura. Al di là di questi due elementi, la libertà è (in genere) assoluta. Puoi passare delle ore di fronte a un’opera particolare (se hai questa esigenza) e puoi anche farti tutto il museo di corsa, come se volessi battere qualche record. Puoi fare uno di questi due estremi e tutte le sfumature tra i due e nessuno ti giudicherà per questo.

Nel cuore di Roma, a pochi passi da Piazza del Popolo, al 20 di Via Pasquale Stanislao Mancini, puoi trovare Villa Hélène, ora un museo, ma in precedenza la casa studio dello scultore norvegese (naturalizzato cittadino statunitense Hendrik Christian Andersen (Bergen, 1872 – Roma, 1940). Al centro del luogo, l’idea utopistica di creare un centro di comunicazione dedicato alla divulgazione dei prodotti di mente e spirito, che siano destinati a essere liberi come “l’aria, la luce e il mare”. Il luogo perfetto per una performance. Il luogo perfetto per stare scomodi.

E ora veniamo alla performance di Armon Art, un lavoro indubbiamente audace che unisce recitazione, danza e canto. E qui veniamo al paradosso: Armon sa come far stare lo spettatore scomodo in modo salutare. Tanto per cominciare lo spettatore è in piedi, ed è “costretto” a seguire la performance in un itinerario attraverso il museo, in cui il gigantismo delle sculture – come se non bastasse – contribuisce a farti sentire ancora più piccolo. Corpi umani esaltati nella loro nudità e nella loro biomeccanica per lo più in gesso, ma anche in bronzo e in marmo. Qui il corpo umano scolpito, nella sua inerzia, celebra l’immortalità della materia. La performance, specie nella parte di danza, che esalta le effimere qualità del corpo vivente, celebra l’immortalità dello spirito. L’inizio dello spettacolo, che riproduco in una foto qui sotto, è una delle cose più potenti che abbia visto negli ultimi anni.

A questo punto è lecito domandarsi: dove sta questa scomodità salutare di cui parlo all’inizio. Arrivo al punto, ma sono necessarie due premesse. Prima premessa: secondo me non c’è (ormai) una differenza significativa tra teatro e performance, e uso questi due termini in maniera intercambiabile. Seconda premessa: quando lo spettatore è seduto a teatro, in una posizione stazionaria, con una prospettiva fissa, e come se fosse in una bolla. La poltrona è simile a un guscio protettivo, in cui si suppone che nessuno ti tocchi o ti parli durante lo spettacolo. Non è previsto che tu ti muova e questa inerzia del corpo porta spesso a un’estrema mobilità della mente, non sempre desiderabile. Puoi vagare nei fatti tuoi o persino addormentarti.

Una performance in un museo sfida questa prospettiva: non ci sono sedute. Può sembrare una cosa da poco e si potrebbe dire che guardare uno spettacolo da seduti e uno spettacolo in piedi sia può o meno la stessa cosa (scomodità a parte). Sbagliato. Quando sei in piedi, quando puoi camminare o devi camminare per seguire l’azione scenica, accade qualcosa. Uno spettatore in piedi è uno spettatore attivo, e uno spettatore attivo è pronto e ricettivo. Deve camminare, deve trovare il punto più adatto per vedere, rispettando al contempo il patto implicito di rispetto degli altri spettatori, deve decidere se spostare il peso su una gamba o su un’altra. Questa necessità di compiere una scelta ha un impatto sulla psiche: uno spettatore che sceglie non è uno spettatore passivo. Da qui la necessità di essere scomodi: lo spettatore non è più una mente che vaga, ma un corpo che si muove in uno spazio artistico.

In teatro si è parlato fino allo sfinimento di quarta parete, quella barriera invisibile che rende il palco simile a un acquario: il pubblico vede cosa accade sulla scena, ma gli attori fanno finta di non vedere il pubblico. Durante la performance in un museo non c’è una parete e questo è estremamente perturbante e – soprattutto – scomodo. Lo spettatore diventa immancabilmente goffo: “posso stare qui?” “Dove inizia lo spazio scenico e dove finisce?” “non rischio di avvicinarmi troppo alle opere d’arte?”. Questo tipo di incompetenza spaziale diventa il punto chiave che rende speciale la relazione tra artisti e pubblico. A un certo punto accade una vera e propria trasformazione: la scomodità e il senso di inadeguatezza del pubblico si muta in sicurezza e lo spazio alieno di un museo diventa un luogo familiare in cui tutto è possibile.

C’è un momento, durante la performance, in cui il pubblico è invitato a visitare gli spazi per conto proprio, prima di muoversi al piano superiore per la parte finale dello spettacolo. Questo è un momento di fondamentale importanza, perché allora lo spettatore può abitare lo spazio, renderlo proprio ed entrare in relazione personale con le statue di Andersen. Allora potrebbe comprendere che le statue non imitano il corpo umano, così come le danzatrici non imitano il corpo scolpito: entrambe hanno una vita autonoma che raggiunge il proprio pieno potenziale con il terzo elemento: il pubblico. Parola proferita, danza, musica e canto sono i tramiti che rendono realizzabile questa scomoda relazione tra spettatore e spazio museale. Potrebbe sembrare troppo e tutto insieme, ma è un qualcosa di cui abbiamo disperatamente bisogno, anche se ancora non lo sappiamo.

A Roma (in effetti un po’ ovunque in Italia) ci sono molte gemme nascoste come Villa Hélène che aspettano solo di essere scoperte. Sono profondamente convinto che proprio performance di questo tipo, così immersive e così a 360 gradi possono portare alla luce questi tesori e permettere loro di brillare.

Armon Art ensemble è un gruppo di artisti di talento il cui approccio multidimensionale è in grado di dare nuova vita al nostro patrimonio artistico.

Coreografie: Elisa Baldisseri, Federica Pedicini, Chiara Mercuri. Pianoforte, Composizione musicale: Federico Baldisseri. Recitazione: Doriana Mercuri. Canto, Composizione musicale: Maria Vittoria Feccia. Producer, Composizione musicale: Mario Santanoceto

 

Recensione: l’ultima ruota del carro

20131121-175756.jpgProbabilmente raccontare cosa ci è successo durante il giorno è la prima cosa che abbiamo imparato da piccoli. Estendendo questo principio, è facile pensare che sia anche la prima cosa che l’umanità abbia iniziato a fare, prima che esistessero la scrittura e la pittura, se non altro come sistema per far sopravvivere il più a lungo possibile i propri ascoltatori. Ora, è difficile che la nostra sopravvivenza in senso letterale dipenda da un’informazione, ma ascoltare una storia può sicuramente migliorare la nostra qualità di vita, anche solo venendo a sapere delle disavventture burocratiche di un conoscente. Raccontare storie fa bene, a chi le dice e a chi ascolta. (continua)

Recensione: Snowpiercer

20131115-150857.jpgCapita sempre più raramente di vedere film di fantascienza soddisfacenti non solo dal punto di vista degli effetti speciali, ma anche dal punto di vista narrativo e di messa in scena. La fantascienza è un genere che richiede coraggio e capacità di osare, e forse Hollywood ha avuto un atteggiamento eccessivamente conservatore negli ultimi quindici anni, spesso puntando su remake o su marchi ben consolidati, piuttosto che puntando su storie nuove e mai viste. Anche quando è stata percorsa quest’ultima strada, il cinema di fantascienza statunitense si è perso in così tante spiegazioni farraginose per spiegare la tecnologia introdotta, da distruggere del tutto la sospensione dell’incredulità. Questo è il caso di Upside down, una specie di Romeo e Giulietta a gravità invertita in cui veniva spiegato in continuazione il perché e il percome ci fossero due mondi con due gravità opposte. Tutte queste spiegazioni hanno l’effetto di “attivare” il senso critico dello spettatore che, inconsciamente o meno, inizia a saggiare la validità delle teorie. Il problema è che, prima o poi, la falla viene trovata: non trattandosi di scienza, ma di fantascienza, la falla c’è sempre. Si può dire che in questo modo si mette l’accento sulla “scienza”, dimenticando la parte di “fanta” a inizio parola. (null)

Recensione: giovane e bella

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Giovane e bella, ovvero come non scrivere di sessualità al femminile. Mi fanno sempre paura film diretti da uomini che parlano di sessualità al femminile. Purtroppo gli uomini devono superare se stessi per entrare in risonanza con una sessualità di tipo diverso dalla propria, e questo superamento avviene fin dal primo momento, nella fase di scrittura. In un certo senso, Giovane e bella di Ozon è un film esemplare da questo punto di vista, di come cioè non si scrive un film sul risveglio sessuale di una giovane. La pellicola di Ozon non è un film “osceno” in senso stretto, e a ben vedere non è neppure scioccante o controverso. Purtroppo la nostra percezione della sessualità è così anestetizzata, la sessualizzazione delle donne (anche delle giovanissime) è così diffuso che è molto difficile provare turbamento, indignazione o un qualunque altro tipo di emozione umana. Il film di Ozon non è neanche un’opera di liberazione: la sessualità di Isabelle non è un riscatto e nemmeno segno di un’autodeterminazione. Si potrebbe dire che sia puramente un caso, o un accidente, una scusa per mostrare una serie di sequenze a sfondo erotico.

(null)

La grande bellezza

La grande bellezza. Una recensione sparsa. Alla fine l’ho visto la grande bellezza. Dopo che tutti ne hanno parlato, straparlato e hanno raccontato tanto, troppo della trama. Molte delle recensioni che ho letto non hanno molto a che fare con criteri strettamente cinematografici, ma con problemi personali. In altre parole: siccome non mi piacciono gli ambienti rappresentati, non mi piace il film. E’ troppo facile e nelle critica delle nostre parti mi ha un po’ stufato. Se sei un critico (lo sei?)  parla in termini cinematografici, non come se fossi al bar dello sport. Ma tant’è… questo è il trend in Italia. La grande bellezza è un film fastidioso, a tratti difficile da guardare. Per certi versi è come un horror: sai quello che sta per succedere ma non riesci a distogliere lo sguardo. E ora, in ordine sparso:
ROMA: Roma è una presenza costante. Non sono d’accordo nel dire che è un personaggio. In realtà è qualcosa di più: è una condizione esistenziale. E’ una piovra che ti avviluppa, è una sirena che ti attira e ti delude, è una palude da cui non puoi uscire se non con un atto di volontà potentissimo. (continua…)

Recensione: Inside Man di Spike Lee

20130523-152005.jpgOk, mi è capitato di recuperare Inside Man. Un thriller diretto da Spike Lee, Clive Owen, Denzel Washington, Jodie Foster! Le aspettative erano alle stelle, specie dopo il disastro di Miracolo a Sant’Anna. Mi sono sorpreso nel constatare come anche questo film precipiti nella pochezza e nell’inconcludenza.
Forse Inside Man è la dimostrazione palpabile di come una regia possa sorreggere una sceneggiatura mediocre ma di come non possa fare assolutamente nulla con una sceneggiatura sciatta e piena di buchi come questa. A tratti questo film mi ha fatto pensare a un brutto mish-mash tra “I soliti sospetti” e “Le Iene” (ma forse sono solo io, eh!). Le Iene per la vaga linea temporale che confonde il prima e il dopo (caratterizzato quest’ultimo da una fotografia vagamente bluastra); i soliti sospetti perché “chi sarà mai il colpevole”… peccato che (null)

Recensione: L’amore inatteso

Non mi stancherò mai di ripetere di quanto uno scrittore può imparare dal cinema. In questo caso vorrei proporre l’analisi di un film, L’amore inatteso, che parla di una questione intima e personale come la conversione, senza mai entrare nel vivo della questione.

Normalmente parlare di un argomento senza nominarlo esplicitamente non è soltanto una cattiva regola di scrittura: è un paradosso. Quando però il tema entra nella sfera più privata di un personaggio, esporre la sua vicenda per ellissi, senza entrare all’interno dei suoi turbamenti interiori non è solo una specie di discrezione da parte dell’autore, ma è anche un modo di trattare la propria materia in maniera più forte.

Questo è il caso dell’amore inatteso, tratto dal romanzo autobiografico di Thierry Bizot, “catholique anonyme” (che per quanto mi risulta non è stato tradotto in italiano). (continua…)

Analisi: Anna Karenina di Joe Wright

Ammetto di avere avuto un minimo di apprensione di fronte all’idea di una nuova versione di Anna Karenina (anche perché non ho una grande simpatia per Keira Knightley), ma devo ammettere di essermi ricreduto di fronte alla versione di Joe Wright.

L’Anna Karenina di Joe Wright è un lavoro sontuoso (pur nella sua apparente semplicità), di impatto visivo, in cui la messa in scena è diretta da un’idea di regia talmente forte che il lavoro degli attori passa in secondo piano. La recitazione di tutti gli interpreti è misurata, molto controllata, e questo serve a fare emergere in maniera ancora più evidente i picchi, solitamente i picchi emotivi della protagonista.

La rilettura di Wright del classico di Tolstoj è evidente: secondo il regista Anna Karenina è una tragedia delle apparenze, ambientata in una società rigida e oppressiva. Questo messaggio viene veicolato dall’idea del teatro. La maggior parte delle scene hanno luogo in un vecchio teatro (di tanto in tanto osserviamo qualche piccolo dettaglio che ne denuncia la decadenza). Ambienti domestici, ristoranti, piste da pattinaggio, sale da ballo e (ovviamente) teatri, sono tutti riportati (continua…)

Recensione: Girlfriend in a coma

Girlfriend in a coma è un documentario di Annalisa Piras basato su una serie di considerazioni di Bill Emmott sull’Italia. Emmott è stato direttore dell’Economist ed è sempre stato molto critico nei confronti di Berlusconi, fino ad essere portato in giudizio per diffamazione per averlo definito “inadatto a governare”.

Per questa ragione è piuttosto chiaro il taglio di questa pellicola, peraltro confermato dalle personalità che intervengono. Sono più o meno le solite: Marco Travaglio, Roberto Saviano, Nanni Moretti, Mario Monti, Toni Servillo, c’è un breve intervento di Beppe Grillo (in cui però non parla di politica interna ma di emigrazione), e così via.

Ho la sensazione che questo film sia stato oggetto di particolare attenzione dopo il rifiuto del Ministero della cultura di proiettarlo al MAXXI in periodo elettorale. In realtà è evidente che un documentario di questo tipo non è in grado di spostare nemmeno un voto. Chi lo guarda è già un “convertito”, (continua…)

Warm Bodies – recensione rapida e informale

E’ abbastanza inutile chiedersi cosa penserebbe Romero di una storia d’amore tra zombie e umani. Del resto è risaputo che il progenitore dei moderni morti viventi non guarda film di genere realizzati da altri cineasti. L’unico aspetto a cui Romero tiente molto si riassume in una battuta: “gli zombie non corrono” (zombies don’t run).

Come si intuisce ampiamente dal trailer (fatto curioso: più diventiamo ossessionati dagli spoiler, più i trailer cinematografici ti raccontano tutta la trama della pellicola presentata), Warm Bodies è una commedia sentimentale a tinte horror, che deve la sua ispirazione a Romeo e Giulietta, a La Bella e la Bestia e – ovviamente – al classico Zombie.

Per quanto ne so, questa non è la prima volta in cui viene proposto il punto di vista di un morto vivente. Una rapida ricerca rivela che il primo film basato su questo principio è Colin, una produzione a bassissimo costo del 2008. (continua…)

E’ uscito Lilikoi il nuovo disco di Jontom

Quando ascolto Jontom mi sento orgoglioso del mio paese. Ok, ora che ho la vostra attenzione vi spiego il perché. Viviamo in una società e in un epoca in cui essere artisti è quasi sempre un secondo lavoro, un hobby, un’attività incidentale che non deve mai pesare sull’impiego principale. E così abbiamo scrittori-postini, attori-impiegati del catasto e pittori-web designer. Non deve essere così. L’arte richiede impegno, dedizione e tempo. Jontom con il suo esempio mi dimostra che questo, nel nostro paese, è possibile. Basta crederci e non smettere mai.Per questo un capitolo del mio libro di prossima uscita, “Il recupero del silenzio”, è dedicato a lui.

Di Jontom avevo già scritto una recensione di un altro disco, “I need you both”, e del suo libro di memorie come ukulelista professionista, “No è un ukulele”. Un ottimo libro motivazionale, uno di quei libri che ti ispirano.

E ora ci troviamo di fronte a Lilikoi, un disco che viene distribuito da Jontom in formato Freemium. Il formato Freemium è molto semplice: un prodotto viene offerto gratuitamente nella forma base, se volete un servizio in più, potete pagare. Nella fattispecie, se volete il disco in formato mp3, lo potete scaricare direttamente qui. Se il disco vi piace o se volete averlo in formato lossless, al massimo della qualità audio possibile, potete comprarlo allo stesso link.

Adesso veniamo al disco. (continua…)

Brave – film ribelle da mostrare alle nuove generazioni

Mi è capitato qualche tempo fa di vedere Brave – ribelle, il film della Pixar del 2012. Che la Pixar ormai sia “l’intrattenimento” animato per eccellenza mi sembra quasi una frase fatta, ormai è un marchio sinonimo di uno standard qualitativo molto alto non solo dal punto di vista della regia e dell’animazione, ma anche dal punto di vista della sceneggiatura e della costruzione dei personaggi. Per molti versi Brave è davvero un film “coraggioso”, come suggerisce il titolo inglese, perché esplora due territori poco esplorati non solo nel cinema d’animazione, ma nel cinema tout-court. In questo breve articolo vorrei soffermarmi brevemente su questi due punti e sul perché questo sia un film da mostrare a tutti: bambini, bambine e adulti in generale. Com’è noto, Brave narra la vicenda della principessa Merida e del suo spirito ribelle rispetto alle costrizioni imposte dal suo ruolo: va a cavallo, tira di spada, scala pareti e soprattutto usa il suo amatissimo arco, che diventa in maniera concreta lo strumento del suo riscatto. Si può dire che Merida voglia la parità tra sessi in senso moderno. Questo punto non viene però sviluppato in maniera pedante, ma proprio attraverso questi due temi che sono il cardine e il senso più profondo del film. (continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (7)

20120906-151652.jpgÈ solo una settimana che sono a Venezia, ma mi sembra già di essere qui da una vita, o quanto meno da mesi. Sarà che l’atmosfera si sta spegnendo, sarà che le odi osannanti per Spring Breakers mi stanno prostrando, sarà che la voce che vuole un Michael Mann (presidente di Giuria) divertito di fronte alla modesta opera di Korine (sempre Spring Breakers) mi fa sperare, io non vedo l’ora di lasciare la laguna. Vabbè, anche per un altra ragione, ma quella me la tengo davvero per me.
In ogni caso oggi è stata la giornata di Bellocchio, il cui film è stato forse tra i più attesi di questo Festival, dopo tutte le polemiche preventive, i finanziamenti erogati, negati e nuovamente restituiti e dopo tutta la chiacchiera che c’è stata intorno.

(continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (6)

20120905-120539.jpgLo ammetto, quando sono ai Festival di cinema, l’idea di vedere i film di determinate nazionalità mi mette più ansia di altri. Lo so, non è una cosa bella da dire e non vorrei sembrare razzista, ma è un riflesso involontario, qualcosa che mi prende alla bocca dello stomaco e non riesco a controllare, almeno nei primi secondi. Poi, cerco di lavorare su me stesso e provo a fare training autogeno e a convincermi che le cose non possono andare sempre come me le immagino. Poi, le cose vanno esattamente come pensavo. Male. Profezia che si autoavvera? Può darsi. In ogni caso, stavo parlando di cinema portoghese. Mi dispiace portoghesi, vi amo tutti, ma il vostro cinema proprio non mi entra nel cuore. Il film della mattina è stato Linhas de Wellington, le linee di Wellington, un polpettone storico di due ore e mezza sull’invasione Napoleonica di Massena in Portogallo.

(continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (5)

20120904-131112.jpgSono pronto a considerarlo un mio limite, ma non amo molto i film europei che parlano del 68. C’è sempre qualcosa che non mi convince del tutto, un’afflato nostalgico che si mescola con recriminazioni e sensi di colpa di vario genere. In altre parole c’è sempre qualcosa che non mi quadra, ho sempre la sensazione che ci sia qualcosa di intimamente irrisolto in racconti di questo genere, qualcosa di non del tutto autentico. In generale

(continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (4)

20120903-155522.jpgA volte due persone si parlano, credono di fare una conversazione sullo stesso argomento, e invece non è così. Me ne sono reso conto con la questione del comunicato stampa della mostra. Ieri sera alla fine ho chiesto al mio “contatto”: ma che c’entrava la questione delle notizie Ansa riprese tali e quali da Repubblica Radio e il comunicato sulla mostra del cinema di Venezia? La risposta è stata, come il buon senso avrebbe dovuto suggerire: assolutamente niente. Avevamo parlato di due cose diverse pensando che fosse la stessa. Non mi stupisco mai della capacità di incomprensione dell’essere umano in generale e mia in particolare. Quindi alla fine com’è andata: qualcuno dei quotidiani avrà fatto la voce grossa, l’ufficio stampa ha fatto un comunicato che qualcuno ha letto e qualcun altro no (perché NON è stato inviato via mail) e tutto è andato avanti come prima. Tutti tranquilli. La libertà di stampa non è in pericolo.

(continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (3)

20120902-161628.jpgOggi è arrivata anche nella mia casella la comunicazione della mostra per cui le recensioni devono essere pubblicate il giorno successivo alla proiezione per il pubblico. Persone informate mi hanno detto che in realtà la questione non è proprio come l’avevo posta ieri. Non era una misura contro la stampa on line, ma si riferisce a una diatriba fra l’Ansa e Repubblica Radio (peraltro riportata dal Foglio e ripresa da Il Post). Quindi è una cosa a uso e consumo dei “grandi”. Per quanto riguarda noi “piccoli” le cose in realtà restano immutate. Un sacco di gente continua a pubblicare on line in tempi molto rapidi, battendo sul tempo i più grandi e restando sostanzialmente inosservati. Tutto come prima e l’uomo campa. Veniamo ora alla giornata di ieri

(continua…)

Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (2)

20120901-113721.jpgOggi non parlo del tempo atmosferico (che a quanto pare è anche una brutta abitudine di scrittura), ma di una certa temperie che sta salendo qui al Festival. La ragione è la solita: la sindrome di accerchiamento da parte della stampa “stampata”, il giornalismo blasonato e impresso sulla nobile carta, contrapposto al “mezzo online”, per natura cialtrone, scavezzacollo e figlio di Wikipedia (e chi più ne ha più ne metta). Non è chiaro chi abbia fatto pressione su chi, fatto sta che è stata diramata una nota di “embargo” alquanto pittoresca, mai vista a nessun Festival cui abbia partecipato. In partcolare un Tweet del responsabile ufficio stampa della mostra che recita “si raccomanda ai giornalisti l’embargo per le proiezioni anticipate stampa per rispetto dei tempi di lavoro di tutte le testate”. Wow.
Di solito si chiede alle testate on line più rapide di aspettare la proiezione per il pubblico per parlare di un determinato film. Questa misura è comprensibile e anche condivisibile in misura minima. Il nuovo embargo prevede l’obbligo di attesa per la pubblicazione fino alla mattina successiva alla proiezione. Il perché è evidente: favorire la stampa che esce in edicola. Misura ridicola: come obbligare tutti i veicoli che circolano in una data strada alla velocità del veicolo più lento. Della serie: se incontrate una bicicletta cavoli vostri, andate a quel passo. E se il ciclista è anziano? Data l’età media dei giornalisti della stampa blasonata il paragone è tutt’altro che peregrino…

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Diario non ufficiale del 69 Festival di Venezia (1)

20120831-160625.jpgVenezia è una città che ti frega subito, appena arrivi. Ti illude con una frescura apparente appena uscito dalla Stazione dei treni e ti espone impietosamente a un’umidità appiccicosa che ti fa subito rimpiangere qualunque regione tu abbia lasciato. Questo è l’impatto con Venezia. Il Lido in realtà è molto peggio. Per varie ragioni sono mancato dal Festival per ben due anni ed ero piuttosto curioso di questa 69a edizione, la prima dopo l’era Muller. È ancora presto per farsi un’idea. L’unica cosa che mi è abbastanza chiara è che non mi sono perso nulla di eclatante finora. Non ho visto molto il primo giorno, appena due film.

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Voci nel deserto – frammenti di libertà

Le voci nel deserto, collettivo teatrale nato qualche anno fa, pratica un tipo di scrittura molto particolare e mi piace in questo sito esplorare stili di scrittura un po’ diversi dal solito. Si potrebbe obiettare che in realtà le Voci nel deserto praticano una “non-scrittura”: il loro è un collage di testi tratti da vari autori, mescolati con musiche, impressioni sonore, frammenti video. Eppure anche la giustapposizione di frammenti è in realtà una scrittura, se l’effetto finale consiste nel creare qualcosa di nuovo.

Uno spettacolo delle Voci nel deserto è una raccolta di citazioni. Quello che unisce questi piccoli frammenti di discorsi è l’idea che ciascuno di essi ci parli della realtà che viviamo oggi, in Italia, nel secondo decennio del ventunesimo secolo. In effetti è proprio così: ciascuna frase, ciascun pensiero, parla direttamente all’immaginario di chi ascolta, portandolo a instaurare relazioni, a creare collegamenti fra la realtà quotidiana e altre epoche in cui le idee venivano esposte in maniera più incisiva e civile. (continua…)

Biancaneve e il cacciatore, una recensione

Scrivere non è soltanto creare dal nulla, vuol dire interpretare di nuovo, rileggere, proporre nuove scritture di storie conosciute e patrimonio comune. Probabilmente non ci sono molte storie universalmente note come la favola di Biancaneve, incentrata sullo scontro intergenerazionale fra la Regina e la giovanissima protagonista della fiaba, simbolo di innocenza e purezza. La riscrittura della vicenda arcinota fatta di specchi, mele e cuori strappati è qui attuata in chiave fantasy. La protagonista è la “prescelta”, il motivo più comune di genere, l’unica in grado di riportare equilibrio in un mondo devastato dalla sete di potere della “strega cattiva”. L’impianto fondamentale della storia tradizionale è grosso modo rispettato. Il terreno di scontro delle due donne resta comunque la bellezza. La cosa più interessante sono le due declinazioni di bellezza che vengono proposte. (continua…)

Ukulele Festival di Caldogno 2012 – 20 luglio

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Adoro andare ai Festival di Ukulele. Il Festival di Caldogno, giunto alla seconda edizione, è per me un’occasione molto speciale per rivedere amici di data più o meno lunga, incontrarne di nuovi e stare tutti quanti insieme in un’atmosfera rilassata, quasi fuori dal mondo, per alcuni giorni. Questo Festival per me ha poi avuto una particolarità che me l’ha fatto apprezzare ancora di più: viaggiare con Jontom, che è sì un musicista tecnicamente perfetto e dotato di grande sensibilità, ma è prima di tutto un amico. Quest’anno il Festival si svolge all’interno di Villa Caldogno e non nella dependance. Per questo mi sono preso la libertà di presentare, a simbolo di questo post, la damina che sona il liuto.

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I gruppi sono davvero tanti, artisti molto interessanti che vengono un po’ da mezza Europa e da qualche angolo del mondo. Nella foto possiamo vedere Ukulele Red e Lil Mamie Brown, che hanno letteralmente acceso la serata con i loro ritmi sincopati, con la loro ironia tutta al femminile e rigorosamente “vintage” e i loro effetti vocali del tutto naturali.

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Avevo conosciuto i Winin Boys un paio di anni fa, al secondo Festival ukulelistico in Belgio. Gruppo assolutamente maturo e interessante, molto affiatato e dai ritmi assolutamente tirati. Anche in questo caso andiamo su atmosfere rigorosamente retrò. Cosa che a me va bene, però spererei di vedere l’ukulele esprimersi anche in altri contesti.

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Ho enormi aspettative per Jontom e Violetta. che in questa cornice si buttano su un genere che apprezzo molto, e cioè il bluegrass. Violetta ha una voce davvero molto interessante, voce country, calda e vibrata.

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The Uke Box sono un altro dei miei gruppi (in questo caso un duo) preferiti. La voce di Shelley, calda, melodiosa e dal timbro del tutto particolare è sempre piacevole da ascoltare. La capacità polistrumentale di Marko non è da meno, ed è davvero il caso di dire che si complementano a vicenda.

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Ukulelezaza, alias Remco, è un altro dei miei preferiti. Musicista di rara espressività, riesce a fare su un minuscolo “soprano” cose molto interessanti, facendole peraltro sembrare di una semplicità disarmante.

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Riguardo ad Adriano Bono e la sua Minima Orchestra non ho davvero molto da dire: ho visto i suoi set così tante volte da conoscerli praticamente a memoria! Sono lieto della sua recente aggiunta al repertorio di “We Israelites”. Coinvolgenti e danzerecci come al solito, hanno portato alto il vessillo della musica caraibica. Se vi piace. Se non vi piace, in finale è anche un po’ problema vostro :)

Disonestà e difetti di Amazing Spider-Man

Tutti i film che parlano di supereroi hanno un grande problema in comune. Mi permetto di aggiungere che molti dei critici cinematografici che conosco sono pronti a riconoscere questo difetto genetico delle pellicole tratte da fumetti Marvel, DC e simili, quindi so benissimo di non dire niente di particolarmente originale. Quando ci sono superpoteri in ballo, gli autori delle trasposizioni cinematografiche si sentono in dovere di parlare di come questi poteri sono stati acquisiti, come sono stati integrati nella realtà del personaggio e come quest’ultimo abbia deciso di usarli per il bene collettivo. Non ci sarebbe niente di male in tutto questo, se non fosse per il fatto che la genesi dei poteri dell’uomo ragno, piuttosto che di Hulk o di Batman (anche se in quest’ultimo caso è errato parlare di superpoteri) è già nota a chi sia minimamente interessato alla visione di un prodotto basato su questi personaggi. Il caso di Spider-Man poi è eclatante: l’ultimo Spider Man di Raimi prima di questo riavvio è di soli cinque anni fa (2007), mentre il racconto delle origini è di dieci anni fa (2002). Il fatto che Peter Parker sia stato morso da un ragno non mi sembra minimamente definibile come “spoiler” tanto fa parte della cultura popolare. Eppure ancora una volta dobbiamo subirci il morso del ragno, il rapporto tra Parker e gli zii e l’idea che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”. Salvo poi tradire quest’idea fondamentale nell’ultimo secondo del film (ma non dico il come o il perché: questo sì sarebbe uno spoiler).

Un’altro motivo ritenuto “necessario”, nel primo film basato su un supereroe, consiste nella capacità di controllare e affinare i nuovi poteri. Forse l’unico aspetto originale in termini di regia consiste nel mostrare l’aspetto per certi versi “realistico” delle nuove acrobazie di Peter Parker. Molto spesso i suoi salti nel vuoto appaiono goffi, rallentati, ma non per una questione di velocità, quanto di verosimiglianza. Un uomo che salta appare esattamente in quel modo, ma l’estetica dell’adattamento fumettistico aveva reso ormai generalizzata l’idea di movimenti velocissimi e leggeri. In questo modo Webb restituisce pesantezza e umanità al personaggio, dunque discostandosi dalla tradizione precedente. Che questi motivi siano necessari, è un altro punto che viene dato per convenzione. Negli X-Men per esempio (uno dei pochi film supereroistici a mio avviso davvero validi) questo aspetto non veniva minimamente affrontato. Questo dava alla pellicola stessa un respiro più ampio e un’azione più concitata e concisa: l’audience si trovava subito nel pieno dell’azione, convolgendosi di più.

Il cattivo di Amazing Spider-Man, è cioè Lizard-Man è pessimamente concepito (i cattivi sono importanti!). Ci troviamo di fronte a una specie di lucertola dalle caratteristiche facciali vagamente umanoidi che non è spaventosa, grottesca o anche solo orripilante. E’ semplicemente ridicola nella sua tenerezza quasi involontaria. In questo caso viene il sospetto che il cattivo sia stato scelto non in termini di “appeal” ma in funzione della direzione che si vuole far prendere all’intera saga. E’ facile prevedere che l’aspetto genetico giocherà un ruolo fondamentale nei prossimi film, visto che gli autori hanno legato questo nodo narrativo alla vicenda familiare di Peter Parker (nessuno spoiler anche qui, si vede nei primi minuti).

Resta da dire ancora qualcosa sul personaggio di Gwen Stacy, forse uno dei più controversi non dell’uomo ragno, ma della storia del fumetto in generale. Nel fumetto (e ripeto: nel fumetto) la morte di Gwen Stacy è un espediente narrativo con cui viene data maggiore profondità psicologica a Peter Parker. Questo aspetto specifico è stato oggetto di critica femminista nella serie di video “tropes vs women”, di cui ho parlato in un altro articolo. In questa analisi, che condivido in pieno, Gwen Stacy è un personaggio sostanzialmente vuoto, un oggetto del desiderio che serve solo a dare un senso alla vita del protagonista solo nel momento in cui scompare.

C’è una sostanziale evoluzione nel personaggio di Gwen Stacy? A conti fatti, sembrerebbe di no. Gwen Stacy in questo riavvio dell’uomo ragno è un personaggio bidimensionale, anche una semplice aspetto decorativo nel grande destino del futuro supereroe. Vediamo rapidamente perché. Gwen viene indicata come uno scienziato già di grandi capacità, ma gli unici momenti in cui le vediamo in queste vesti sta: 1) conducendo un gruppo all’interno di un laboratorio, come una guida qualunque 2) facendo un lavoro “da fattorino”, nel momento in cui porta un oggetto da una località “A” a una località “B”. Gwen viene descritta come una persona di rara intelligenza e destinata a una delle migliori università, ma non vediamo mai in azione la sua intelligenza. In altre parole le sue doti restano “nominali” ma non sono mai espresse nel film in alcun modo. Questo è molto grave perché il personaggio perde totalmente l’autorevolezza con cui viene presentato. Al massimo Gwen è ritratta come infermiera nel momento in cui cura le ferite dell’eroe, immagine rassicurante perché inquadrata nel classico ruolo di cura e supporto affidato alle donne.

Ultimo punto: Gwen non è davvero dotata di libero arbitrio e sembra quasi l’oggetto di una “contrattazione” invisibile tra il padre di lei e il suo futuro partner. Questo, dal “Padre della sposa” in poi è un grande classico. In realtà dietro alla gelosia di un padre nei confronti di una figlia c’è sempre qualcosa di profondamente inquietante (anche se proviamo a rendere romantico questo aspetto). La visione ottusamente patriarcale di questa scrittura nega di fatto al personaggio qualsiasi opportunità autentica di sviluppo. Gwen è trattata da pacco e il possesso esercitato su di lei viene scambiato come amore. Ricapitolando, Gwen Stacy è un personaggio debole e innocuo, oggetto al massimo di protezione ma non degno di rispetto da parte delle sue controparte maschili. Peter Parker dice chiaramente di essere il vero scienziato fra i due, per mettere a tacere eventuali equivoci.

Resta la domanda, a parte il bisogno di restare al passo con le uscite cinematografiche più importanti, Amazing Spider-Man è un film da vedere? La risposta è ni, nel senso che non è una pellicola terribilmente brutta. E’ però un prodotto estremamente blando nell’intreccio narrativo, lento nella presentazione di presupposti ormai arcinoti e francamente insostenibile nella presentazione di Gwen Stacy. Per quanto riguarda le singole scene, non ne saprei citare nemmeno una davvero memorabile.

Ella’s secret – raccontare l’irraccontabile

Note: you can find an english translation  of this review here.

Dall’8 al 25 marzo è in scena a Roma al Teatro Dell’Angelo Il segreto di Ella, scritto e diretto da Harris Freedman. Già rappresentato negli Stati Unito e in Gran Bretagna, questo lavoro teatrale affronta uno dei temi fondamentali del XX secolo: il tema dell’olocausto e l’enorme ferita che questa atrocità ha inferto a livello individuale e collettivo, oltre che filosofico e spirituale.

Il testo di Freedman ha almeno due pregi di immenso valore. In primo luogo si preoccupa delle persone. Non cerca di fare proclami personali a favore o contro qualcosa, non si abbandona alla retorica, ma cerca di costruire due personaggi autentici, portatori di paure e di esigenze quotidiane. Persone che hanno subito la violenza della storia e che non sono in grado di dare un senso agli effetti dell’orrore della persecuzione nazista nelle loro vite. Il secondo pregio di Ella’s secret consiste nell’aver dato la voce a due donne. (continua…)

Quasi amici – parlare di handicap senza falsità

Cominciamo subito col dire che il tema di Quasi amici non è la disabilità. Lo so, la prima reazione di fronte a un’affermazione di questo genere è l’incredulità. Il film parla di una persona paralizzata dalla base del collo in giù e di un uomo che sulla carte dovrebbe essere il meno adatto nel prendersi cura di lui. Non ha alcuna esperienza, nessuna formazione e apparentemente nessuna attitudine ad accudire una persona non autosufficiente. Eppure, insisto, questa pellicola non parla di disabilità.

In fondo qual’è il modo migliore di parlare di disabilità? Continuando con i paradossi più o meno apparenti, potrei insistere dicendo che il modo migliore è non parlarne. Ora spiego il perché di tutte queste frasi apparentemente criptiche. (continua…)

John Carter: il film d’avventura del 2012?

Incominciamo a dare un’utile indicazione agli anglofoni: il romanzo di Edgar Rice Burroughs da cui è tratto John Carter è disponibile e gratuito su internet e si può trovare nella biblioteca virtuale del progetto Guthenberg sotto vari formati , tra cui i più utilizzati dagli e-reader tipo Kindle o Ipad.

Come suggerisce il titolo, si può dire che John Carter sia il film d’avventura del 2012? Forse è presto per fare simili valutazioni, ma senza dubbio John Carter è un ottimo candidato. Siamo di fronte ad un film che potrebbe essere definito la “solita americanata”, e proprio per questo vorrei invitare a non lasciarsi andare a valutazioni così superficiali. Dall’alto della nostra presunta superiorità europea tendiamo a sminuire il lavoro degli sceneggiatori d’oltre oceano, mentre in realtà dimentichiamo che sotto molti aspetti loro sono i veri eredi della tradizione narrativa occidentale. Ad esempio, chi scrive negli Stati Uniti ai livelli più alti, conosce a memoria la Poetica di Aristotele e l’ha interiorizzata a tal punto da praticarla anche senza pensarci.

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Safe House – Nessuno è al sicuro

Che Denzel Washington fosse “un’ottima mela marcia” lo avevamo capito fin da Training Days, e lo aveva capito anche l’Academy Awards che gli assegnò un Oscar proprio per quell’interpretazione. In Safe House si ripete proprio quel tipo di dialettica, l’incontro scontro fra agente “anziano” cinico e disilluso e prima leva, giovane ambiziosa e idealista. Da un punto di vista attoriale il confronto fra Denzel Washington e Ryan Reynolds è davvero improbo per quest’ultimo. Quello che salva Reynolds in questo caso è proprio la sua faccia anonima da persona qualunque, la sua presenza sullo schermo così latitante da impedirgli di riuscire ad essere un vero eroe. Tutto quello che fa sembra quasi sempre una questione di buon senso piuttosto che di carattere. In fondo i due protagonisti a loro modo sono una “strana coppia” e questo fa funzionare il film. (continua…)

La danza macabra di Hugo Cabret

Una della scene chiave di Hugo Cabret è una sorta di rievocazione del cinema delle origini. I due piccoli protagonisti sono in una biblioteca e sfogliano un libro. Davanti a loro scorrono le immagini degli inizi della grande epopea delle immagini in movimento e della loro transizione da “novelty”, da curiosità da baraccone, fino a nuovo mezzo narrativo, il più tipico del XX secolo. Durante questa sequenza si possono ascoltare le note della Danse Macabre di Camille Saint-Saens. Di certo siamo in un momento chiave dal punto di vista ideologico e non si tratta di una musica scelta a caso. La colonna sonora è per lo più originale e composta da Howard Shore, ma non in quel preciso momento. Shore, in una dichiarazione riportata da Variety , sostiene che la musica di Saint-Saens sarebbe stata usata per un tendone da circo o per un cinema in quegli anni. Non trovo che questa spiegazione sia del tutto persuasiva. La musica di Saint-Saens è tutto fuorché musica da baraccone, visto che a seguito della prima esecuzione del 1875 fu al centro di uno scandalo che la vedeva come l’esempio di un frivolo intrattenimento per le classi elevate. .

Credo sia lecito chiedersi il perché di una tale scelta e penso di poter formulare un’ipotesi al riguardo. (continua…)

The Artist, film muto, sonoro, amato e odiato

Mi è capitato di vedere The Artist dopo gli Academy Awards. Premetto che non è una cerimonia che mi ha mai appassionato e l’assegnazione o la mancata assegnazione di determinate statuette non hanno mai provocato in me emozioni particolarmente forti.

Veniamo al dunque: The Artist è un film che ho apprezzato molto. Non lo considero un capolavoro o una di quelle pellicole che dovrebbero entrare per sempre negli annali del cinema. Però c’è un però. Da un punto di vista puramente soggettivo The Artis mi ha appassionato, nel senso che mi ha regalato passioni vere. Ho riso, ho pianto e ho avuto davvero a cuore la vicenda del protagonista. Questo per alcuni sarà molto, per altri sarà troppo poco, per me è semplicemente cinema.

La prima cosa che mi ha colpito è la straordinaria interpretazione di Jean DuJardin: ironico, istrionico, dall’espressività irresistibile e dirompente. In una sola parola: teatrale. A questo punto immagino che qualcuno sia già saltato sulla sedia. (continua…)

Intervista a Veronica Sbergia dei Red Wine Serenaders per D.O.C.

Mi era capitato di intervistare Veronica Sbergia ad Avigliana, nell’ottobre del 2011, e devo confessare di essermi tenuto questo tesoro nascosto in cassaforte per tutto questo tempo per festeggiare la nascita del mio sito.

Comincio col dire che D.O.C. è un disco davvero molto particolare, caratterizzato da grande energia e vitalità, la stessa vitalità che chi segue i Red Wine Serenaders dal vivo ben conosce. Un album con tredici pezzi provenienti da varie epoche e da varie fonti ma tutte riconducibili alle radici della musica tradizionale statunitense, e naturalmente al Blues.

Il disco si apre con un interrogativo: “Cosa succede se cinque musicisti si chiudono per cinque giorni in una stazione ferroviaria con un po’ di amici e un bel numero di bottiglie di vino? Il risultato è nelle vostre mani”.

- Allora Veronica, com’è questa storia della stazione ferroviaria?

Avevamo già tentato di fare una precedente incisione nel teatro di questa vecchia stazione di Ora, in provincia di Bolzano. All’interno di questa vecchia stazione c’è un circolo Arci e al suo interno c’è un piccolo teatro molto carino che hanno ricavato nella sala d’aspetto di prima classe. Poco più in là c’è la casa del capostazione dove ora vive Mauro Ferraresi, uno dei componenti dei Red Wine Serenaders. Siamo sempre stati affascinati dal teatro della piccola stazione e volevamo registrare un live lì, perché in effetti chi ci viene sa sentire sa che il bello dei nostri concerti è proprio il live. E’ difficile che facciamo un pezzo in due modi identici. (continua…)

Jontom – I need you both

Per la recensione del nuovo disco di Jontom, il primo basato sull’ukulele, ho intenzione di violare la una delle prime regole che ci sono state insegnate, fin da bambini. Lo giudicherò dalla copertina. Il design di I need you both è semplice, minimale, sembra davvero un foglio ripiegato in tre più che un vero e proprio cofanetto. In primo piano uno scatto di Francesca D’Urbano che ritrae lo stesso musicista durante una delle sue esecuzioni dal vivo. I colori sono caldi, vibranti, leggermente bruciati sui bordi. Si può notare una certa rispondenza tra la scelta del packaging e il disco vero e proprio.

Posso dire con cognizione di causa di avere visto tanti ukulelisti a questo punto della mia vita. Tanti professionisti, tanti wannabe, tanti che basano il proprio successo sulla simpatia e sul fascino dello strumento. Jontom non appartiene a nessuna di queste categorie. Non solo è un musicista “vero”, ma è uno degli ukulelisti dall’approccio più tecnico sullo strumento, frutto di uno studio e di una ricerca formale costanti e quotidiani. Il suo stile è elegante, improntato a una chiarezza sonora riscontrabile solo nei grandi solisti. Ma veniamo alle canzoni del disco. Il titolo “I need you both” sembra essere un riferimento ai due strumenti di Jontom, il pianoforte, lo strumento con cui si è accostato alla musica, e l’ukulele, strumento di elezione. Il ruolo del piano è sporadico, è una sorta di accompagnamento che serve a dare profondità e a infittire la tessitura sonora nei momenti più drammatici. Le canzoni sono dieci suddivise equamente: cinque canzoni originali e cinque cover. Dentro a questa prima partizione c’è un’ulteriore suddivisione, trasversale rispetto alla prima: cinque brani strumentali e cinque brani con accompagnamento vocale. (continua…)

Sweet Soubrette – Days and nights

Confesso di essermi avvicinato a questo Days and nights con un po’ di paura. La ragione è semplice, avevo amato così tanto Siren’s Song, il primo disco di Sweet Soubrette, che il timore di essere deluso era davvero molto forte. Siren’s song era molto diretto nell’approccio testuale e musicale, eppure così ricco di poesia, dolore e ironia da renderlo un prodotto davvero unico. Devo ammettere che l’ascolto di questo Days and nights ha fugato tutto i miei dubbi.

Il secondo disco di Days and nights esplora strade e sonorità diverse senza abbandonare la via maestra dell’ukulele. Anzi, si potrebbe dire che il caratteristico timbro sia un tratto distintivo della musica di questa sorprendente artista newyorchese. (continua…)

L’amore in guerra – Melania Fiore

In un’altra versione di questo spettacolo, diretto da Melania Fiore, il doppio testo sulla Stein e sulla Melzner diventa un doppio monologo in cui le due figure maschili scompaiono, mantenendo una presenza solo nella mente di queste due protagoniste. Fra l’altro questo impianto richiama l’idea iniziale di Mario Scaccia, ispiratore di questo testo a lui dedicato.

A prima vista, il passaggio da due personaggi a una sola protagonista può essere visto come un passo indietro, come il ritorno a una forma più semplice. Non ci si potrebbe sbagliare di più. Qui ci troviamo davanti a un vero e proprio passo avanti. Il dialogo immaginato diventa più intimo, più viscerale, scava in profondità evitando psicologismi e portando alla luce emozioni che vanno al di là del testo. La mancanza di un’interruzione, di una voce “altra”, diventa qui una ricchezza per il testo e un’impresa notevole per l’attrice. A questo punto è davvero difficile pensare a un’interpete diversa da Melania Fiore per questo lavoro. Per una ragione molto precisa, e cioè per il legame profondo che qui si compie fra scrittrice e interprete. Il suo lavoro di attrice è qui il completamento del lavoro di autrice, il lavoro di una scrittura che diventa compiuta non sulla carta, ma sulla scena, inciso nel vivo della sua corporeità e della sua voce. (continua…)

Diaz – Don’t Clean Up This Blood

Il film di Daniele Vicari cerca di ricomporre quello che è rimasto un trauma non sanato per il nostro paese, come dice la locandina “la notte in cui la democrazia fu sospesa”. Di certo non è un’esagerazione. Per una volta però sarebbe bene sospendere le giuste passioni che provoca una ferita ancora aperta e fare almeno un tentativo per parlare del funzionamento di Diaz al di là di ogni considerazione sui fatti da cui trae ispirazione. Pur tenendoli ben presenti.

Diaz è un film corale, nel senso che parte da diversi punti di vista, però non è un film ad episodi. In questo caso abbiamo la sovrapposizione di diverse testimonianze che convergono fino a una ricostruzione complessiva. Ciascuno degli sguardi è come un riflettore puntato sulla scuola, nel tentativo di illuminare ogni angolo, dove la luce si sovrappone c’è una ripetizione, un ritorno su determinati momenti chiave. (continua…)