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scrittura   /   Intervista a Ursula Meier (sister, l’enfant d’en haute)

(domenica, 22 aprile 2012)

Sister, ovvero l’enfant d’en haut, è stato uno dei film del Festival di Berlino del 2012 che mi hanno affascinato di più. Parla di un bambino che vive con la sorella nella periferia degradata di un piccolo centro a ridosso di una stazione sciistica. Ogni giorno sale agli impianti e va a rubare. La regista Ursula Meier racconta una storia autentica, a tratti crudele, sempre molto umana, senza voler dimostrare nulla e senza il pesante moralismo dei Dardenne cui è stata comunque accostata. Il film parla di un bambino che vive nella periferia degradata al di sotto di un grande centro sciistico e che ogni giorno sale sulla montagna per rubare le attrezzature ai più ricchi.

  • Lei scrive di non aver voluto realizzare un film di carattere sociale. Sister parla piuttosto di relazioni disfunzionali. E’ un tema che le è caro?

Io amo i personaggi che sono ai margini, al di fuori della realtà. Fin dall’infanzia ho avuto uno sguardo non sulla linea della realtà, in grado di vedere diversamente la realtà e ho sempre amato questi personaggi. Non amo le cose quadrate, benpensate e benpensati. Amo il melange, le situazioni in cui si mescolano cose che normalmente non vanno insieme. Non mi piacciono le etichette, la normalità. Amo il personaggio di Jane Campion in Sweetie, Barbara Loden e Cassavetes.

  •  C’è stato un lavoro di ricerca in fase di scrittura?

L’idea è nata da un’immagine che mi ha affascinato. L’altopiano industriale, le ciminiere e il fumo che si mescola con le nuvole in cui si intravedono le stazioni sciistiche che sono ricche, sono il simbolo di un mondo opulento – una sorta di Disneyland, in contrasto con la parte sottostante, più difficile e più povera. La cosa paradossale è che sotto le montagne non c’è neanche il denaro per salire e per vedere quello che c’è. Questa verticalità è un po’ il simbolo del mondo di oggi, della disparità nella distribuzione della ricchezza. La mia però non voleva essere un’analisi manichea o riprendere i cliché ricchezza/povertà, però era un’immagine molto simbolica. Ho seguito da vicino una stazione sciistica per un mese e mi sono resa conto che anche all’interno della stazione sciistica c’è una verticalità: i lavoratori stagionali spesso vivono in condizioni molto difficili, sono mal pagati, lavorano ma in una situazione in cui la vita è molto cara per cui sono costretti a restare lì per tutta la stagione perché non hanno nemmeno i soldi per tornare a casa, per scendere a valle.

  •  C’è anche qualcosa di più personale dietro a questa storia?

Cinque mesi dopo aver iniziato a scrivere mi sono accorta che questo mio interesse nasceva da un ricordo. Sono cresciuta ai piedi del Giura, al confine franco-svizzero, e quando ero piccola andavo spesso a sciare. Una volta, da bambina, mi trovavo in un ristorante e una delle persone che erano con me mi ha detto: “stai attenta che quello è un ladruncolo”. Era un bambino che girava per la località sciistica sempre da solo e sono rimasta affascinata da questo personaggio che non apparteneva a quel mondo ed era una specie di intruso. Stava lì ma sicuramente non aveva i soldi per sciare, per le attrezzature. Era una specie di paria. Questa immagine della mia infanzia è restata e ha lavorato dentro di me inconsciamente.

  • C’è una scena del film che mi ha colpito molto. Il piccolo protagonista viene scoperto e viene picchiato da uno degli adulti che ha appena derubato. Questo avviene pubblicamente, nello sfondo ci sono una serie di persone che seguono quello che sta accadendo con crescente apprensione. Poi alla fine quando l’uomo mostra di essere stato derubato, tutti si tranquillizzano, tutto è tornato alla normalità. E’ questo il tipo di normalità contro cui combatte?

Mi fa molto piacere che mi abbia fatto questa domanda, perché è molto raro che si parli di questa scena. Il mondo dello sci è molto simbolico perché anche solo per accedervi bisogna avere un “passaporto”, lo ski-pass. E’ anche tipico dell’autoreclusione di un gruppo sociale: si accede con uno ski-pass e si è all’interno di una comunità in cui tutti hanno fiducia gli uni negli altri. Gli sci sono talmente cari che è come se ci fossero di computer e questi oggetti vengono lasciati in giro in nome di quella fiducia all’interno di quel gruppo. E’ uno degli ultimi luoghi in cui si sta sereni perché c’è la fiducia reciproca. Il bambino si traveste da sciatore e nasconde la sua identità di ladro, adotta un linguaggio da bambino borghese, parla in inglese, insomma recita la parte di un ricco. Nel momento in cui ruba tradisce la fiducia che gli altri hanno in lui. Il bambino preferisce rubare di sopra perché il materiale è più costoso e perché per lui è facile. Nel momento in cui viene svelata la sua identità di ladro, volevo che la scena fosse violenta, anche perché mi ricordava le scene che accadono spesso nel terzo mondo, in cui i bambini vengono picchiati per la strada davanti a tutti perché rubano per mangiare. Il primo gesto che fa l’uomo per colpirlo è di togliergli il passamontagna, per svelare la sua identità… che strano, parlando di questo e ripensandoci, mi viene in mente che il bambino che avevo visto da piccola in realtà non l’avevo proprio visto perché era coperto dal passamontagna. Che strano, non me ne ero ricordata prima di adesso…

 

 

 

 

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