Questo sito è dedicato allo sviluppo e alla pratica della scrittura creativa in tutte le sue forme e comprende l’analisi critica di vari mezzi espressivi, dalla narrativa alla musica, dal cinema al teatro, passando per altre forme che fin troppo spesso sono considerate minori: la televisione e il fumetto.

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(venerdì, 11 maggio 2012)

In un articolo precedente (questo il link) ho parlato del principio che dovrebbe essere alla base di ogni scrittura, e cioè la ricerca della verità. Inseguire il significato dell’idea di verità adesso va al di là degli scopi di questo breve articolo (se vi capita leggete il saggio di Paul Horwich “Truth”, a me suggerito qualche tempo fa dal prof. Marco Innamorati). In questa sede volevo parlare piuttosto di etica della scrittura. Credo sia un argomento sul quale sia utile tornare di tanto in tanto, senza parlare di linee generali o di massimi sistemi. Un sito web forse non è il mezzo più adatto per un discorso sistematico sul tema, e credo che sia più proficuo parlare di casi specifici, anche in modo critico, tenendo ben presente la possibilità di discussioni aperte sui singoli argomenti.

In ogni professione umana, prima o poi ciascuno di noi dovrebbe arrivare al punto di chiedersi cosa sta facendo. Sto facendo il bene della comunità in cui vivo o sto fornendo strumenti di oppressione a un determinato gruppo di potere? Se siamo cristiani possiamo chiederci se stiamo servendo Dio o Mammona. Se siamo degli Jedi possiamo domandarci se siamo al servizio del lato chiaro o del lato oscuro. Il concetto è lo stesso: stiamo rendendo il luogo in cui viviamo un luogo migliore o peggiore. Lo stesso discorso vale anche per la scrittura. Il caso più evidente è nel giornalismo. Raccontare la realtà così come essa è, e non secondo un interpretazione di comodo, è il modo più nobile di rendere un servizio alla propria comunità. Se parliamo di cinema, musica, politica o scienza, ogni giornalista dovrebbe seguire solo questo principio di servizio nei confronti del bene comune. Naturalmente, come sappiamo bene, in Italia e in altri paesi del mondo la scrittura è spesso asservita a considerazioni di altro genere, anche solo per ragioni di comodo. Si può obiettare che in Italia non esiste la censura. Considerazione ingenua, perché oltre alla censura effettiva (che pure c’è), non considera un’altra forma di censura ben più insidiosa e pericolosa: l’autocensura. Ci sono giornalisti che autonomamente decidono di cosa parlare e di cosa non parlare, senza pressioni evidenti, ma solo sulla base di considerazioni personali.

Questo discorso si può applicare anche ad altri campi meno evidenti, ma non per questo meno insidiosi. Quest’anno mi è capitato di notare, per una curiosa coincidenza, una pericolosa deriva nella scrittura cinematografica. Nella prima metà del 2012 sono usciti due film, il primo di produzione statunitense (Act of valor) e il secondo di produzione francese (Special forces). L’idea alla base di entrambe le sceneggiature è la stessa: una squadra specializzata deve recuperare un ostaggio, nel primo caso un’informatrice della Cia di stanza nelle Filippine, nel secondo caso una giornalista in Afghanistan. Fin qui, niente di strano. Poi, con un minimo di studio, si iniziano a trovare delle somiglianze ulteriori, molto più inquietanti. Entrambi i registi, Mike McCoy e Stephane Rybojad, hanno realizzato un documentario sulle forze speciali, prima di arrivare al lungometraggio. Entrambi si sono serviti del supporto tecnico rispettivamente dei Navy Seals e dell’esercito francese. Nel caso di McCoy, parte del progetto è stato addirittura finanziato dai Navy Seals. In entrambi i casi, le forze armate sono state coinvolte nella fase di scrittura. A questo punto credo che sia lecito saltare sulla sedia. A tutti gli effetti ci troviamo di fronte a film di guerra realizzati in parte da guerrafondai. Come sarebbe stato un Full Metal Jacket scritto in collaborazione con i marine? Avrebbe avuto la stessa forma che conosciamo oggi? Ci sarebbe ancora la descrizione dell’addestramento come percorso di deumanizzazione? Sono ovviamente domande retoriche.

I protagonisti dei due film che ho citato sono più o meno tutti bravi padri di famiglia, reagiscono umanamente allo stress ma riescono a superare le difficoltà, e si trincerano dietro all’idea di Dio, patria e famiglia. La patria è un’idea di per sé neutra: dietro questa bandiera si possono compiere azioni generose o atroci bassezze. L’idea di Dio e di famiglia teoricamente dovrebbe essere più che sufficiente a far capire a chiunque che l’idea di andare in giro per il mondo a sparare alla gente, in fondo, è una gran cazzata. Sottigliezze per chi segue la catena di comando e che in fondo, non è davvero tenuto a pensare.

E’ difficile valutare l’estensione della “collaborazione” delle rispettive forze armate in fase di scrittura. E’ facile intuire che il semplice supporto “logistico” sia stato in qualche modo condizionato al gradimento della sceneggiatura. Lo spirito critico cede il passo alla ragione di stato, il sano dubbio alla santificazione. Per questo Act of Valor e Special Forces sono film essenzialmente pericolosi, se non si affrontano con uno spirito critico adeguato. Non dico di non andarli a vedere: sono contrario a censure e boicottaggi. Non è grande cinema, e il risultato artistico è molto modesto, ma se scegliete di vederli, non dimenticate mai per un momento che state guardando filmati di propaganda e nulla più. Ovviamente c’è un’altra ragione più sinistra dietro a queste pellicole: che servano al reclutamento. Questa idea rende queste pellicole più che pericolose: le rende potenzialmente velenose per un’intera generazione.

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