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scrittura   /   Lavoro dello scrittore: sfidare l’immaginazione dei lettori

(giovedì, 7 marzo 2013)

Stephen King scrive nel suo libro sulla scrittura (“On writing”, libro che ho conosciuto grazie a uno dei lettori di questi articoli) che “se non hai il tempo di leggere, non hai il tempo (o gli strumenti) per scrivere”. Può sembrare una frase banale, quasi scontata, ma non lo è. Ci sono diversi modi di leggere: si può leggere per puro piacere, per motivi di studio, per cercare spunti o per essere ispirati. Uno scrittore dovrebbe leggere per tutte queste ragioni, tutte insieme. Uno scrittore è quel lettore particolare che riesce a imparare qualcosa da tutto quello che gli capita sotto gli occhi.

Con questo articolo vorrei dare l’avvio a una nuova rubrica in cui prendere in esame un frammento di testo (il prossimo articolo sarà basato su una sola frase!) e mostrare un aspetto che mi ha interessato o incuriosito. Non voglio proporre la mia interpretazione come l’unica possibile o come quella filologicamente più corretta, ma desidero semplicemente raccontare cosa mi ha ispirato di quello che ho letto. Mi piacerebbe un giorno allargare questo metodo di indagine ai lettori di questo sito e pubblicare le loro ispirazioni personali tratte da letture più o meno note. Forse qualcuno un giorno mi scriverà e mi proporrà un breve testo.

Oggi comincio con un passaggio da “La macchina del tempo” di H.G. Wells, che mostra un procedimento molto interessante, in cui Wells lancia il proprio guanto di sfida direttamente all’immaginazione del lettore, peraltro in modo molto sottile. La mia edizione di riferimento è Mursia, con traduzione di Piccy Carabelli. Premetto che il romanzo di Wells è raccontato in prima persona. Chi parla riporta i propri incontri con il misterioso Viaggiatore del tempo e i resoconti di viaggio di quest’ultimo. I fatti narrati sono ovviamente insoliti e meravigliosi, e come in molte storie di fantascienza al di fuori dell’esperienza comune. In uno dei primi capitoli, il narratore sente che le stesse possibilità del linguaggio iniziano a sfuggirgli:

Mentre scrivo la storia, sento profondamente l’insufficienza della penna e dell’inchiostro, e sento soprattutto di non riuscire a rendere completamente l’atmosfera e lo spirito del racconto. Voi leggete – suppongo – abbastanza attentamente, ma non potete vedere nel cerchio di luce della piccola lampada il volto pallido e schietto del narratore, né potete udire le inflessioni della sua voce. Non sapete come l’espressione del suo viso accompagnasse le fasi del racconto!

Ho parlato di guanto di sfida lanciato all’immaginazione di chi legge. C’è una spia importante in questo passaggio: di solito uno scrittore non richiede l’attenzione del lettore. E’ una richiesta troppo scoperta, quasi volgare. Quando questa richiesta (anche se indiretta: ”Voi leggete – suppongo – abbastanza attentamente”) viene però effettuata, siamo certi di trovarci di fronte a un punto chiave. In questo caso Wells vuole calare il lettore in un atmosfera, vuole ricreare nella sua immaginazione il livello di coinvolgimento del narratore. Se fossimo al cinema ci troveremmo di fronte a una soggettiva: lo sguardo del narratore è omologato a quello del lettore. Wells vuole assicurarsi che il lettore nelle pagine successive tenga sempre presente il volto del Viaggiatore del tempo, illuminato da una piccola lampada. Per assicurarsi questo obiettivo usa un linguaggio negativo: “Non potete vedere… né potete udire… Non sapete come l’espressione del suo viso…”. Proprio queste negazioni sono una vera e propria sfida, quasi una provocazione. Il lettore, sentendosi chiamato in causa, tende istintivamente a riappropriarsi del potere del suo immaginario, riempiendo gli spazi lasciati appositamente in bianco da Wells. Chi legge non può vedere il volto del Viaggiatore, ma può assegnargli un viso egli stesso; il lettore non sente il suono della sua voce, ma può affibbiargli quello che più gli piace con l’accento che più gli sembra appropriato. Non sa come accompagni con il viso le fasi del suo racconto, ma il lettore le immaginerà comunque.

Il risultato è che la sfida di Wells regala una grande dose di libertà al lettore: il viaggiatore diventa un manichino privo di espressione che il lettore può riempire come vuole, un po’ come Mr. Potato. Volendo, chi legge potrebbe anche immaginare sé stesso nei panni del Viaggiatore… e chi lo vieta?

Rivolgersi direttamente al lettore è un corrisponde al principio teatrale dello sfondare la quarta parete, per un momento interrompe la finzione e richiama l’attenzione del pubblico. In questo caso l’interruzione non è traumatica, perché La macchina del tempo è già in sé un rivolgersi continuo al lettore, ma anche in questo caso è una tecnica da usare con parsimonia e solo quando vogliamo attirare l’attenzione del lettore su un elemento chiave della storia o del procedimento narrativo che abbiamo adottato (cose che per lo più sono intimamente legate, almeno nel caso di scrittura “matura”).

E non dimentichiamo di lasciarla un po’ di libertà al lettore, la libertà di riempire almeno qualche “spazio bianco” e dunque di partecipare, in piccolo, al processo creativo del romanzo.

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